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Jane Addams, la donna più pericolosa d’America

Nata nel 1860 in una famiglia protestante dell’Illinois, la giovinezza di Jane Addams fu segnata dalla perdita di entrambi i genitori e dalla tubercolosi, malattia che contrasse a quattro anni e che le causò dolorosi danni permanenti alla colonna vertebrale.

La formazione di Jane Addams

Nel 1899, dopo aver fallito gli studi medici, si trasferì a Chicago e fondò la Hull House. Era un progetto ambizioso e all’avanguardia: un edificio situato nel quartiere operaio dedicato ad iniziative culturali di ogni genere rivolte soprattutto alle donne.

A coloro che avevano completato gli studi la Hull House metteva a disposizione spazi di ricerca e alle donne che non avevano potuto studiare venivano dedicati asili nido per i figli, formazione scolastica e occupazioni laboratoriali retribuite. L’idea alla base era quella che la società contemporanea per funzionare avesse bisogno del contributo di ogni individuo e non poteva essere appannaggio solo di una ristretta élite.

Numerosi furono i contributi della Addams ai più disparati settori ma furono le sue posizioni politiche ad averla resa celebre. Nel 1912 sostenne la candidatura alla Casa Bianca dell’amico Roosevelt, leader del Partito Progressista. Nel 1914 la “santa d’America” iniziò la sua instancabile attività pacifista. Attraversò gli Stati Uniti e tutta l’Europa organizzando congressi e manifestazioni per denunciare i crimini di guerra. Capitanò, anche, una commissione atta a stilare proposte utili per porre fine al conflitto.

Negli anni Venti, a causa della paranoia anticomunista, le posizioni riformiste e pacifiste della Addams le costarono la presenza all’interno in alcune blacklist. L’amico e collaboratore Roosevelt la definì: “la donna più pericolosa d’America” quando lei rifiutò di appoggiare l’entrata degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale.

Riformista in tempo di tradizionalismo, pacifista in tempo di guerra, ricevette il Nobel per la pace nel 1931. 

Vera Brittain che raccontò la “Generazione perduta”

«Tornerete nelle vostre case prima che siano cadute le foglie dagli alberi», sentenziava Guglielmo II nell’agosto del 1914: era l’inizio non solo di quella che verrà ricordata come una delle guerre più logoranti della storia, ma anche come il conflitto che ha causato tra i più grandi vuoti generazionali mai registrati. Ernest Hemingway la definì la Lost Generation, quella dei ragazzi nati tra il 1883 e 1900, mandati giovanissimi al fronte e che quando – e se – vi tornarono dovettero fare i conti per tutta la vita con le atrocità vissute. Una generazione perduta raccontata dalla scrittrice Vera Brittain.

Vera Brittain al fronte

Vera Brittain, nel 1914, era una giovane benestante e una brillante studentessa di Oxford; aveva un fratello, Edward, che sognava di diventare compositore e un fidanzato, Roland, che eccelleva negli studi classici. Entrambi si arruolarono volontari nei primi mesi di guerra.  

La giovane, volendo contribuire agli sforzi del paese, lasciò l’università per diventare infermiera dapprima a Londra, poi a Malta e infine in Francia: tutti spostamenti scanditi da lettere dal fronte, che non nascondevano la delusione per un conflitto molto diverso da come era descritto in patria.

Edward e Roland morirono sul campo, il loro cognome estinto come quello di tante altre famiglie.

La Brittain, dopo la fine della guerra, tornò a Londra e nel 1933 pubblicò Testament of Youth, un racconto della vita al fronte che diventò non solo il manifesto dei pacifisti, di cui alle soglie della Seconda guerra mondiale la Brittain rappresentò una delle personalità più autorevoli, ma anche la voce di un’intera generazione. Nel 1944 uscì Massacre by Bombing in cui la Brittain, denunciando i bombardamenti in Germania, mostrò una forte inclinazione all’internazionalismo, suscitando la rabbia del pubblico.

Testament of Youth (per noi Generazione perduta) è la voce di chi non ne ha mai avuta una e si unisce a opere come Niente di nuovo sul fronte occidentale nel raccontare con gli occhi di quella gioventù una delle pagine più buie della storia umana.

«Non mi rendevo conto di quanto fossimo fortunati ad avere ancora la speranza, e non immaginavo che ben presto sarebbe venuto un tempo in cui non avremmo avuto nemmeno quella».

Vera Brittain

Emily Hobhouse e i campi di concentramento inglesi

Nata nel 1860 in una famiglia anglicana, Emily Hobhouse si avvicinò sin da giovanissima all’attivismo di stampo femminista e, quando nel 1899 scoppiò il secondo conflitto tra britannici e boeri – popolazione sudafricana di origine olandese -, si dedicò all’organizzazione di manifestazioni e raccolte fondi a favore delle donne e dei bambini vittime del conflitto. Ben presto iniziarono a trapelare le prime notizie circa le barbarie britanniche in territorio sudafricano e la donna, turbata dalle notizie apprese, partì alla volta di Capetown, determinata a portare il proprio contributo.

I campi scoperti da Emily Hobhouse

Leggendo i rapporti redatti ci si rende ben presto conto della situazione catastrofica che si trovò davanti: erano state internate circa 120.000 persone in 58 campi di concentramento sparsi per il paese e le condizioni igienico sanitarie erano insufficienti a garantire anche solo la sopravvivenza dei prigionieri, che morivano per complicanze legate alla malnutrizione, alla disidratazione e di malattie come morbillo e bronchite; i loro corpi gettati in fosse comuni. Quasi inutili furono gli sforzi di portare qualsiasi tipo di miglioria nei campi: la presenza di una donna pacifista non era gradita.

Una volta tornata in patria le testimonianze della Hobhouse spaccarono l’opinione pubblica: ottenne l’appoggio di un esponente del partito liberale del calibro di Henry Campbell-Bannerman, ma dall’altra attirò numerose inimicizie, tra cui quelle dello scrittore Arthur Conan Doyle, che la riteneva una fonte inattendibile. Lo stesso governo centrale cercò di mettere a tacere la donna negandole il ritorno in Sudafrica, dove, dopo un arresto, si recò comunque nel 1903, portando assistenza alle donne boere e fondando diverse scuole.

Oggi si conta che le vittime boere dei campi di concentramento furono 30.000, di cui 26.000 tra donne e bambini.

«Non posso spiegare cosa si prova quando il senso della giustizia e del bene viene offeso ad ogni istante»

Emily Hobhouse

Bertha von Suttner che ispirò il Nobel per la pace

Bertha von Suttner non solo fu la prima donna a essere insignita, nel 1905, del premio Nobel per la pace, ma ne fu anche l’ispiratrice. Il suo operato nel campo del pacifismo non passò, infatti, inosservato all’amico e collaboratore Alfred Nobel, che la prese come punto di riferimento per la nascita di quel riconoscimento così prestigioso.

Nel 1885 la venticinquenne baronessa boema Bertha von Wchinitz sposa, contro il volere della famiglia, l’ingegnere von Suttner e decide di lasciare la propria patria che percepiva così duramente conservatrice.

Le opere che ispirarono il Nobel per la Pace

Nel 1887 viene pubblicato il suo capolavoro Giù le armi! tradotto in oltre 20 lingue e divenuto uno dei libri più letti del XIX secolo. Il frutto più maturo di riflessioni e studi lunghi anni, di contatti epistolari con gli esponenti del pacifismo occidentale e di esperienze vissute durante la lontananza da casa.

Da qui in avanti l’attività di Bertha si intensifica sensibilmente: nel 1891 fonda la Società pacifista austriaca e nel 1899 consegna al mondo il suo attualissimo L’era delle macchine in cui, a discapito di un’Europa pienamente inserita nel clima positivista, denuncia la spinta sempre più violenta dei nazionalismi e la preoccupante corsa agli armamenti. E sarà lei, per prima, a istituire un sodalizio tra femminismo e pacifismo: le donne sarebbero più propense alle tematiche antimilitariste.

Dopo il Nobel Suttner assiste impotente al tracollo della situazione politica. Il precario equilibrio su cui si basava la pace europea si stava dissolvendo sotto il peso di quei pericoli che lei stessa aveva denunciato. Nel 1912 esce la sua ultima opera, L’imbarbarimento dell’aria, nel quale auspica la creazione di un’unione degli stati europei, unico vero scudo contro la catastrofe dei conflitti armati.  

Bertha muore il 21 giugno 1914 e non vedrà consumarsi il dramma della Prima guerra mondiale. Un conflitto che aveva previsto e per il quale aveva fornito quelle soluzioni adottate solo decenni e milioni di vittime dopo.

«La pace è il più grande dei benefici, o meglio l’assenza della maggiore tra le sciagure»

Bertha von Suttner

Chi erano le schiave sessuali di guerra del Giappone?

L’8 gennaio 2021 il Giappone è stato condannato da un tribunale di Seul a pagare i danni a 12 donne coreane rapite e trasformate in schiave sessuali durante la Seconda guerra mondiale. Questa sentenza si è trasformata in una data storica per l’Asia, i diritti umani e quelli delle donne, nonostante le proteste del governo di Tokyo.

Come ha spiegato Amnesty International: «Dopo una battaglia giudiziaria durata 30 anni […] per la prima volta un tribunale della Corea del Sud ha riconosciuto le responsabilità del Giappone, aprendo così la strada ad altri pronunciamenti in favore della giustizia». Ma chi erano queste “schiave sessuali di guerra”?

Le schiave sessuali chiamate “donne di conforto”

I giapponesi le chiamavano “donne di conforto” (ianfu, un eufemismo per “prostituta”) ed erano utilizzate per “confortare” i soldati e mantenere la disciplina nell’esercito. Alcuni studiosi parlano di “volontarie” ma altri storici, dopo aver ascoltato le testimonianze di molte sopravvissute, ritengono che queste donne venissero rapite o prelevate con l’inganno e inviate nei duemila “centri di conforto” disseminati nell’Asia del Pacifico.

Si parla di circa 200mila donne (ma le stime variano molto) provenienti da Corea, Cina, Filippine, Thailandia, Vietnam, Indonesia, Malesia, Taiwan, dal Giappone stesso e, secondo uno studio, anche europee dalle colonie olandesi. Il 75% di loro morì e molte sopravvissute persero la capacità di avere figli a causa dei traumi subiti e delle malattie.

Solo nel 1993, a termine di un’inchiesta governativa, il segretario generale del governo giapponese Yōhei Kōno ammise, con una famosa dichiarazione, il sistema delle “donne di conforto”. Ma una parte dei conservatori nipponici criticò quella dichiarazione.

Secondo Amnesty International: ««Il Giappone non ha mai fornito scuse complete a tutte le sopravvissute».

A causa di questo, nel 2020, in Corea sono state erette due statue: una prostituta bambina davanti alla quale un politico giapponese si inchina per chiedere perdono. L’opera, intitolata “eterna espiazione”, ha causato, come la sentenza del 2021, un incidente diplomatico.

«Rapite, portate via con l’inganno o vendute da famiglie povere nei territori militarmente occupati, le “donne di conforto” (così venivano ufficialmente chiamate) furono costrette per mesi e anni a lavorare nelle “stazioni di conforto” allestite per la soldataglia. La maggior parte di loro aveva meno di 20 anni, le più piccole 12. Le sopravvissute, tornate a casa dopo il 1945, hanno portato dentro di sé il trauma della violenza. Isolate, povere, ammalate, vergognose, molte sono morte senza essere mai riuscite a raccontare l’orrore della loro esperienza».

Amnesty International

5 errori storici in 300

Scopriamo la vera storia della battaglia delle Termopili tra spartani e persiani che segnò la storia della civiltà occidentale, attraverso gli errori storici del film 300.

  1. I messaggeri persiani che si vedono all’inizio non furono mai inviati. L’unica ambasceria persiana che chiese terra e acqua ai greci risale a dieci anni prima, nella Prima Guerra Persiana.
  2. Tutto l’esercito persiano non è ben rappresentato: gli Immortali non erano orchi mascherati da samurai, non c’erano rinoceronti corazzati e i primi elefanti da guerra furono usati a Gaugamela più di un secolo dopo.
  3. Efialte non era uno spartano nato deforme. Secondo Erodoto era un pastore della Trachis che tradì i greci probabilmente per soldi. Sparta mise una taglia sulla sua testa e fu ucciso tempo dopo.
  4. A combattere alle Termopili non furono solo i 300 spartani ma circa 7mila greci e quando alla fine si scoprì il tradimento di Efialte, a restare in difesa del passo furono anche 700 tespiesi e 400 tebani (la cui città si trovava proprio a sud delle Termopili).
  5. Non combattevano seminudi ma schierandosi in una formazione compatta di opliti detta falange, equipaggiata con elmo, armatura, lancia e scudo rotondo, l’hoplón, da cui il nome opliti.

Una ragione per vederlo? Non sono un grande fan di Snyder ma il film mostra bene come vedevano l’evento gli antichi greci ed è uno spunto per leggere il graphic novel originale di Frank Miller.

5 errori storici in 300 in video

Il destino dei tre imperatori romani catturati dai nemici

Cosa successe ai tre imperatori romani che finirono in catene a causa di nemici di Roma? Due di loro perirono a causa degli avversari, uno fu rilasciato ma finì nuovamente in prigionia.

Valeriano

Il primo degli imperatori romani catturati fu Valeriano, la cui cattura rappresenta il punto più basso della storia dell’Impero. È il 260 d.C. e Roma è vittima di invasioni e usurpazioni: Valeriano raggiunge Edessa, in Armenia, per rompere l’assedio persiano.

Il Re Shapur lo cattura e poi lo umilia usandolo come schiavo. Sul destino finale di Valeriano non si hanno certezze: alcuni dicono che gli fu fatto bere dell’oro fuso, ma gli autori cristiani lo odiavano per le persecuzioni e inventarono le torture più umilianti. Di sicuro c’è solo che non tornò mai più in patria. Suo figlio Gallieno iniziò la ripresa dell’Impero.

Niceforo I

Il secondo fu Niceforo I, Imperatore d’Oriente nel IX secolo. Fu catturato dopo la disfatta di Pliska contro i bulgari. Il Khan Krum lo fece decapitare e dal suo teschio ricavò una coppa con cui beveva.

Romano IV Diogene

Il terzo fu Romano IV Diogene, Imperatore d’Oriente nell’XI secolo, fu catturato dopo la disfatta di Manzikerta contro i turchi. Per farsi liberare accettò di pagare un favoloso riscatto, ma quando fu rilasciato i suoi nemici nell’Impero si sollevarono, lo catturarono e accecarono per poi confinarlo su un’isola. Là, senza cure mediche, morì per le ferite.

I tre imperatori romani catturati dai nemici

Chi fu l’imperatore più trasgressivo di Roma

Se affrontiamo questo argomento dobbiamo subito due cose: prima di tutto che molti autori antichi che ci parlano delle trasgressioni imperiali erano avversari politici o ideologici di quegli imperatori e non sempre affidabili. Secondo, che i costumi sessuali della Roma pagana erano molto più liberi di quelli della società cristiana che l’ha seguita.

Nonostante questo alcune cose erano criticare aspramente anche dai romani, come l’incesto praticato da Caligola con le sue tre sorelle. O come le abitudini sessuali dell’Imperatore più trasgressivo di tutti secondo Cassio Dione: Elagabalo.

Le trasgressioni di Elagabalo

Elagabalo apparteneva alla dinastia dei Severi e salì al potere nel 218 d.C. che era solo un adolescente. Un aspetto che non va sottovalutato nella comprensione di questo quindicenne a cui fu consegnato il più grande potere al mondo.

Sacerdote orientale del Sole, Elagabalo legava il misticismo alla sessualità e al gusto per l’eccesso. In tre anni cambiò cinque mogli tra le quali una vergine vestale a cui fece violare il voto per sposarlo e poi lasciò. Inoltre sembra aver sposato due mariti, il suo cocchiere è favorito Ierocle, è uno schiavo di nome Zotico.

Grande amante del travestitismo, pratica non inusuale a Roma, era anche un assiduo frequentatore di bordelli e di orge. Sembra che abbia offerto metà dell’Impero al medico che fosse riuscito a renderlo ermafrodito.

La megalomania e le trasgressioni lo isolarono finché i membri della sua stessa dinastia lo abbandonarono e a soli diciannove anni fu ucciso dalla sua guardia pretoriana. Solo sua madre non lo abbandonò e mori con lui abbracciandolo.

La storia di Elagabalo in video

La vera storia che ha ispirato House of the Dragon

George Martin si ispira spesso a eventi della storia inglesi per le sue opere fantasy. Game of Thrones, ad esempio, si ispira alla Guerra delle Due Rose. E anche per House of The Dragon, di cui è finita la prima stagione. A quali eventi: la guerra civile chiamata l’Anarchia.

Il periodo è quello dal 1135 al 1154, in Inghilterra. Enrico I aveva due figli, Matilda e William, ma nel 1120 William morì annegato a soli 17 anni. La prima moglie di Enrico era morta da due anni, e la nuova non restava incinta. Allora Enrico I decise di nominare Matilda sua erede, e fece giurare ai nobili di rispettare la successione. Era una mossa senza precedenti nel paese.

Funzionò? Beh qui occhio perché c’è uno spoiler. Come quello di Rhaenyra, anche il trono di Matilda fu usurpato alla morte di Enrico I da Stefano di Blois, suo cugino, con l’appoggio di quei baroni che avevano giurato di sostenerla.

Iniziò una guerra civile lunga quasi vent’anni, se volete sapere come finì, scrivetemelo nei commenti e farò un video. A quale evento storico inglese sono ispirati la serie tv e i libri di House of the Dragon?

Letture consigliate:

  • “Stephen and Matilda” di Jim Bradbury, History Press;
  • “The Empress Matilda” di Marjorie Chibnall, Wiley;
  • “The medieval power struggle that inspired HBO’s House of the Dragon” di David Routt, Smithsonian Magazine

La vera storia che ha ispirato House of the Dragon in video

5 errori storici ne Il gladiatore

Usiamo 5 dei molti errori ne Il gladiatore di Ridley Scott per scoprire qualcosa sulla storia romana.

  1. Massimo e i suoi colleghi sono chiamati generali, carica inesistente all’epoca. In realtà sarebbero stati Legati (delegati) dell’Imperatore. Ma è comunque strano, perché l’Imperatore è presente alla battaglia, quindi doveva essere lui al comando e non aver bisogno di alcun legato.
  2. Nel film si parla di Colosseo, ma l’Anfiteatro Flavio non prese questo nome fino al Medioevo (ne parlo in un video nel canale).
  3. Lucilla non ebbe alcun figlio da Lucio Vero e all’epoca del film era già risposata con un uomo che odiava, Pompeiano. Si pensa che Pompeiano abbia ispirato il personaggio di Massimo (ma era molto più anziano).
  4. Marco Aurelio non era così anziano, aveva meno di 60 anni quando morì di malattia. A essere strangolato non fu lui bensì proprio suo figlio Commodo, ucciso dall’insegnante di lotta ed ex-gladiatore Narcisso.
  5. Non si fa alcuna parola della peste antonina (probabilmente vaiolo) che imperversava da trent’anni e aveva ucciso milioni di persone, in particolare nell’esercito. Cassio Dione racconta che a Roma mieteva 2mila vittime al giorno. Sembra che lo stesso Marco Aurelio sia morto per la peste antonina.

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