Nata nel 1860 in una famiglia anglicana, Emily Hobhouse si avvicinò sin da giovanissima all’attivismo di stampo femminista e, quando nel 1899 scoppiò il secondo conflitto tra britannici e boeri – popolazione sudafricana di origine olandese -, si dedicò all’organizzazione di manifestazioni e raccolte fondi a favore delle donne e dei bambini vittime del conflitto. Ben presto iniziarono a trapelare le prime notizie circa le barbarie britanniche in territorio sudafricano e la donna, turbata dalle notizie apprese, partì alla volta di Capetown, determinata a portare il proprio contributo.
I campi scoperti da Emily Hobhouse
Leggendo i rapporti redatti ci si rende ben presto conto della situazione catastrofica che si trovò davanti: erano state internate circa 120.000 persone in 58 campi di concentramento sparsi per il paese e le condizioni igienico sanitarie erano insufficienti a garantire anche solo la sopravvivenza dei prigionieri, che morivano per complicanze legate alla malnutrizione, alla disidratazione e di malattie come morbillo e bronchite; i loro corpi gettati in fosse comuni. Quasi inutili furono gli sforzi di portare qualsiasi tipo di miglioria nei campi: la presenza di una donna pacifista non era gradita.
Una volta tornata in patria le testimonianze della Hobhouse spaccarono l’opinione pubblica: ottenne l’appoggio di un esponente del partito liberale del calibro di Henry Campbell-Bannerman, ma dall’altra attirò numerose inimicizie, tra cui quelle dello scrittore Arthur Conan Doyle, che la riteneva una fonte inattendibile. Lo stesso governo centrale cercò di mettere a tacere la donna negandole il ritorno in Sudafrica, dove, dopo un arresto, si recò comunque nel 1903, portando assistenza alle donne boere e fondando diverse scuole.
Oggi si conta che le vittime boere dei campi di concentramento furono 30.000, di cui 26.000 tra donne e bambini.
«Non posso spiegare cosa si prova quando il senso della giustizia e del bene viene offeso ad ogni istante»
Emily Hobhouse