La vita e la morte di Li Wenliang hanno mostrato al mondo quanto le censure sempre più muscolari delle dittature odierne non siano solo fallimentari ma anche pericolose, quando si misurano con i grandi eventi della storia.
La morte di Li Wenliang
Oggi, in tutto il mondo, viene ricordato il medico eroe che per primo lanciò l’allarme sul coronavirus e che per questo fu denunciato e silenziato dalla polizia di Wuhan. Costretto a firmare una smentita fasulla, Li Wenliang tornò al suo ospedale nell’epicentro di quella che sarebbe diventata una catastrofica pandemia.
Immaginate ora cosa deve aver provato. Diversamente dai suoi colleghi, Li Wenliang sapeva cosa stava succedendo, sapeva di trovarsi nel Ground Zero di un cataclisma fantasma che diventava, ogni minuto, più tangibile e reale. Assisteva, impotente, alle carenti misure di contenimento e di sicurezza mentre osservava lo tsunami sanitario montare dietro l’omertà e la cecità ideologica del suo governo.
Ma non dubitò neanche un momento che il suo posto fosse in quell’ospedale, sull’orlo di un baratro sempre più ampio e profondo, a curare i suoi pazienti, a testimoniare sui social la sua verità. Unica e inascoltata per troppo tempo. Poi quel baratro si è spalancato e lo ha inghiottito.
Li Wenliang è stato una delle prime vittime del coronavirus, oggi milioni nel mondo. Ed è stato anche uno dei primi medici a cadere, 274 solo in Italia. Ma più che la malattia che ha spezzato la sua vita a soli 34 anni, è stata la censura a ucciderlo. Di lui ci restano poche foto e la sua frase alla rivista Caixin: «Una società sana non dovrebbe parlare con una voce sola». Un inno alla libertà di parola e al pluralismo dal profondo di un regime totalitario.
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