È famosa per il femminicidio, ma Ciudad Juarez è prima di tutto una città di confine, la più importante dello stato di Chihuahua. Una regione cuscinetto dove centinaia di ragazze arrivano dall’interno del Messico per varcare la “frontiera della speranza” con gli USA.
Vittime perfette
Hanno tra i 15 e i 25 anni e cercano lavoro, spesso nelle maquilladoras, industrie possedute da stranieri, dove però finiscono per essere sfruttate. Sole e senza protezione sono prede perfette per una società, quella messicana ancora profondamente maschilista e patriarcale. Così, la sera, mentre tornano a casa, scompaiono. A centinaia. Vengono ritrovate qualche giorno dopo torturate, violentate, mutilate, strangolate e gettate in una discarica.
Oggi sono quasi un migliaio le ragazze di Juarez mai ritrovate, altrettante quelle recuperate dalle fosse delle periferie povere e dimenticate della città, uccise in vista della “frontiera della speranza”. Amnesty International parlava, una decina di anni fa, di quasi 4.000 vittime, circa 400 l’anno.
Chiamarlo femminicidio
Quando, nel 1993, iniziò questa strage silenziosa, le madri delle ragazze di Ciudad Juarez, donne povere e poco istruite ma forti come la sierra da cui provenivano, non trovavano una parola per definire l’orrore che le loro figlie avevano vissuto. Non esisteva un modo per descrivere quell’odio, quella violenza, inflitti a una donna perché donna.
Fu grazie alla docente femminista Jane Caputi, alla criminologa Diane E.H. Russell e all’antropologa latinoamericana Marcelle Lagarde che le madri di Juarez trovarono quella parola: femminicidio. Da allora, i loro appelli internazionali non sono mai cessati e le nazioni hanno iniziato a riconoscere il fenomeno, a Juarez e nel mondo. Sono nate leggi che puniscono la specificità di questo crimine, eppure l’ONU ha dichiarato che quasi 100.000 donne continuano a essere uccise ogni anno per motivi di genere.
E le madri di Juarez marciano ancora sulla frontiera ingrata del Messico, alla ricerca dei corpi delle loro figlie perdute, oggi che il male che le uccise ha finalmente un nome ma, spesso, non un colpevole.
«Il femminicidio è l’ultimo esito di un terrorismo misogino continuo che include una vasta varietà di abusi verbali e fisici, come lo stupro, la tortura, la schiavitù sessuale (in particolare la prostituzione), abusi sessuali incestuosi o extrafamiliari di bambine, abusi fisiche ed emotive, molestie sessuali (al telefono, nelle strade, in ufficio e in classe), mutilazioni genitali (clitoridectomie, excisioni, infibulazioni), operazioni ginecologiche non necessarie (isterectomie inutili), eterosessualità forzata, sterilizzazione o maternità forzate (attraverso la criminalizzazione dei contraccettivi e dell’aborto), psicochirurgia, rifiuto del cibo per le donne in alcune culture, chirurgia estetica, e altre mutilazioni nel nome della bellezza. Ovunque queste forme di terrorismo portino alla morte, diventano femminicidi»
Diana E.H. Russell

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