Il 25 maggio del 1895 l’aula del tribunale dove Oscar Wilde si era alzato per ascoltare il verdetto era gremita di folla. Il poeta aveva denunciato il marchese di Queensberry, padre del suo Bosie, per avergli rivolto numerosi insulti omofobi. La denuncia era stata impugnata dal lord e rigirata contro il grande poeta, con l’aiuto delle leggi contro l’omosessualità.
Il processo di Oscar Wilde
Dopo l’assoluzione del marchese, Oscar Wilde finì quindi sotto processo per sodomia. Il 6 aprile il pubblico ministero gli chiese: «Cos’è l’amore che non osa pronunciare il proprio nome?». Wilde rispose:
«L’Amore, che non osa dire il suo nome in questo secolo, è lo stesso che esisteva tra Davide e Gionata, e che Platone mise alla base stessa della sua filosofia, lo stesso che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare. Non c’è nulla di innaturale in ciò».
Oscar Wilde
Il pubblico si levò applaudendo.
Il 25 maggio, il giorno del verdetto, il giudice si rivolse a Wilde, la cui omosessualità era ormai evidente: «Persone capaci di compiere simili cose sono chiaramente sorde ad ogni sentimento di vergogna. È il peggior processo che io abbia mai presieduto». E lo condannò al massimo della pena: due anni di lavori forzati.
Wilde lavorava a un mulino a ruota per sei ore al giorno, dormendo senza materasso e soffrendo la fame, l’insonnia e la malattia. Quasi tutti i suoi amici, anche i massimi intellettuali europei, la moglie e il suo amato, lo rinnegarono. Quando uscì persino i gesuiti gli rifiutarono un alloggio. Wilde allora salpò dall’Inghilterra per non tornarvi più.
Si era consumata così «la tragedia più orribile di tutta la storia della letteratura», secondo Hall Caine. Un dramma annunciato in un paese, quello della Regina Vittoria, dove la legge non puniva l’omofobia ma l’omosessualità. Agli occhi della società Oscar Wilde non era un cittadino come gli altri, era un errore da correggere e punire.
Immagine: Wilde di Brian Gilbert con Stephen Fry