Il grande Palazzo del Potala si alzava lugubre e quieto nella notte del 17 marzo 1959. Ai suoi piedi la valle dormiva angosciata per i lutti, nell’abbraccio silenzioso delle tre cime sacre che proteggevano il Tibet.
L’ultima notte nel Palazzo del Potala
Tientsin Gyatso guardava quella terra ferita dal Palazzo Bianco. Erano passati solo sette mesi dalla durissima repressione che l’Esercito di Liberazione cinese (Tienzin sorrise amaramente per l’ironia di quel nome): il massacro di uomini, donne e bambini a Lhasa.
Migliaia di vittime in tutto il Tibet, persone comuni o monaci, contadini o ricchi proprietari. Tienzin Gyatso sapeva che lo spirito del Tibet rischiava di morire sotto il giogo comunista, quindi aveva preso una decisione: sarebbe partito in esilio per salvare le istituzioni del suo popolo, vecchie di secoli, e smuovere il mondo perché li aiutasse contro il gigante cinese.
Lasciò la finestra abbandonando la luce della Luna per la più quieta oscurità. Si travestì da soldato semplice e poi partì, seguito da una piccola scorta, verso l’India e poi il resto del mondo.
Abbandonò il Palazzo del Potala, Lhasa, la sua gente, condannandosi all’esilio per poterli salvare. Lasciò anche il suo nome lassù, tra le stanze buie del Palazzo Bianco, come un tempo aveva abbandonato quello da bambino, Lamo Dondrup, con la sua famiglia. Da allora in poi tutto il mondo lo avrebbe chiamato semplicemente Dalai Lama, il XIV della storia e, forse, l’ultimo.