L’8 gennaio 2021 il Giappone è stato condannato da un tribunale di Seul a pagare i danni a 12 donne coreane rapite e trasformate in schiave sessuali durante la Seconda guerra mondiale. Questa sentenza si è trasformata in una data storica per l’Asia, i diritti umani e quelli delle donne, nonostante le proteste del governo di Tokyo.
Come ha spiegato Amnesty International: «Dopo una battaglia giudiziaria durata 30 anni […] per la prima volta un tribunale della Corea del Sud ha riconosciuto le responsabilità del Giappone, aprendo così la strada ad altri pronunciamenti in favore della giustizia». Ma chi erano queste “schiave sessuali di guerra”?
Le schiave sessuali chiamate “donne di conforto”
I giapponesi le chiamavano “donne di conforto” (ianfu, un eufemismo per “prostituta”) ed erano utilizzate per “confortare” i soldati e mantenere la disciplina nell’esercito. Alcuni studiosi parlano di “volontarie” ma altri storici, dopo aver ascoltato le testimonianze di molte sopravvissute, ritengono che queste donne venissero rapite o prelevate con l’inganno e inviate nei duemila “centri di conforto” disseminati nell’Asia del Pacifico.
Si parla di circa 200mila donne (ma le stime variano molto) provenienti da Corea, Cina, Filippine, Thailandia, Vietnam, Indonesia, Malesia, Taiwan, dal Giappone stesso e, secondo uno studio, anche europee dalle colonie olandesi. Il 75% di loro morì e molte sopravvissute persero la capacità di avere figli a causa dei traumi subiti e delle malattie.
Solo nel 1993, a termine di un’inchiesta governativa, il segretario generale del governo giapponese Yōhei Kōno ammise, con una famosa dichiarazione, il sistema delle “donne di conforto”. Ma una parte dei conservatori nipponici criticò quella dichiarazione.
Secondo Amnesty International: ««Il Giappone non ha mai fornito scuse complete a tutte le sopravvissute».
A causa di questo, nel 2020, in Corea sono state erette due statue: una prostituta bambina davanti alla quale un politico giapponese si inchina per chiedere perdono. L’opera, intitolata “eterna espiazione”, ha causato, come la sentenza del 2021, un incidente diplomatico.
«Rapite, portate via con l’inganno o vendute da famiglie povere nei territori militarmente occupati, le “donne di conforto” (così venivano ufficialmente chiamate) furono costrette per mesi e anni a lavorare nelle “stazioni di conforto” allestite per la soldataglia. La maggior parte di loro aveva meno di 20 anni, le più piccole 12. Le sopravvissute, tornate a casa dopo il 1945, hanno portato dentro di sé il trauma della violenza. Isolate, povere, ammalate, vergognose, molte sono morte senza essere mai riuscite a raccontare l’orrore della loro esperienza».
Amnesty International
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